Intervista all'artista Rolando Rovati: il ramo di caco, i matti e la ricerca di felicità
Da poco entrato a far parte della rosa di artisti di Patty's Art Gallery, Rolando Rovati si distingue per la particolarità delle sue opere pittoriche.
Attratto dai mosaici, l'artista riversa la sua passione per i tasselli sui propri lavori, in un dialogo che lo riporta a scavare dentro sé e a cercare quella felicità dell'infanzia che lo ha avvicinato al mondo dell'arte. Colori vivaci, narrazioni a ruota libera per coinvolgere anche lo spettatore in questa ricerca di felicità interiore.
Iniziamo a conoscere Rolando Rovati nell'intervista rilasciata a Stefano Corsini, che riportiamo qui sotto.
Un ramo di caco: l'origine della creatività...
SC: Rolando Rovati, medico psichiatra e artista. L’arte ha sempre accompagnato la tua vita. Possiamo dire che tutto è partito da un ramo di caco?
RR: Sì, tutto è partito da lì. Il primo dipinto che ricordo, fatto con le tempere, l’avevo fatto alla scuola elementare e mi era piaciuto molto. Ricordo che è rimasto esposto nella mia cameretta per tanto tempo. Quello, insieme anche a "Tulipani in un vaso". Era enorme il tulipano e piccolissimo il vaso, ma a me piaceva moltissimo anche quel dipinto, meritevole di essere esposto nella mia cameretta di allora.
SC: Ci troviamo nel tuo studio, dove una volta visitavi i tuoi pazienti. Perché per tanti anni tu sei stato il dottore dei matti, quelli della canzone di De Gregori. Chi sono questi matti?
RR: Sono quelli che vanno in chiesa a fumare, come diceva De Gregori nella canzone. Siamo noi, genere umano che contempla questo tipo di relazione, relazione patologica perché esce dagli schemi. Mi sono occupato di malati molto gravi nella mia vita di medico, in struttura. Dei malati più evitati, quelli più maltrattati. Non so quanto l’arte e questo tipo di attività abbiano influenzato quello che sono io oggi. Certamente posso dire che la mia attività di medico mi ha obbligato ad accettare le mie fragilità e a evitare la presunzione. Senza questa operazione non si può essere d’aiuto a questo tipo di persone in queste così gravi difficoltà.
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La ricerca della felicità secondo Rolando Rovati
SC: Quindi tutto il tuo lavoro, le tue opere non sono altro che una ricerca di felicità da parte tua dopo esserti inoltrato nelle tenebre, nel buio della mente delle persone. È così?
RR: Sì, dopo essermi inoltrato anche nelle mie di tenebre. O almeno ci ho provato. A proposito della felicità devo tornare ai cachi e ai tulipani.
Vedo un bambino che sta sulla soglia di casa, che guarda il cielo, vede che è minaccioso, ci sono le nuvole, pioverà. Si rattrista perché non può andare nei prati a correre e va in cucina, sul tavolo di pietra e si mette a disegnare. Ecco, ritrova la felicità.
Questo è quanto succede mentre dipingi. Io non posso entrare nel bambino che è stato colui che guarda una mia opera, però posso ricordare me bambino e la felicità che questo mi dava. Spero che questo operi nello stesso modo anche in chi guarda le mie opere, che possa ritrovare un po’ di felicità. Ecco, questo è un obiettivo che mi pongo quando dipingo.
SC: Quali sono gli artisti della storia dell’arte che più ti hanno influenzato, hanno catturato la tua attenzione, che preferisci?
RR: Premetto che io sono un po’ un onnivoro dell’immagine, però senza dubbio quelli che mi sono rimasti più cari e più impressi sono i futuristi. Balla e Depero in primis, Boccioni. E poi, non da meno, Kandinskij, Klee, Mirò, Picasso. I monumenti dell’arte. Poi, ecco, sono impressi nella mia mente i mosaici di Ravenna che ho visto per la prima volta tornando da una colonia estiva quando abbiamo fatto tappa con il pullman (Sant’Apollinare in Classe). Ecco, questi sono rimasti senz’altro impressi nella mia mente.
SC: Un giorno hai la possibilità di portarti a casa un’opera originale di questi artisti. Quale sceglieresti?
RR: Non potendo portarmi a casa i mosaici, mi porterei a casa un qualche quadro di Kandinskij o di Klee.
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Gli esordi nel disegno
RR: Io ho cominciato a disegnare (più che altro a copiare) i fumetti fin da bambino. Quei pochi che mi venivano per le mani, com’erano i Disney, poi Linus, Alter Linus... erano giornali che uscivano a fine anni Sessanta, negli anni Settanta. Mi piacevano soprattutto quelli che facevano fumetti sudamericani (Trillo, Breccia) e facevo queste riproduzioni, a volte ne inventavo di miei.
Poi c’è stata una fase in cui cercavo di riprodurre dal vero quello che vedevo. Poi, quando ho scoperto il colore, allora lì è dilagato tutto. A un certo punto non bastavano più i segni che facevo. Il colore doveva inondare tutto. Così, mi è venuto un istinto di superare la fase di circoscrivere il colore: prima mettevo il colore sul bianco e nero, poi lo circoscrivevo in aree delimitate.
Alla fine di tutto questo è venuta questa sintesi, si può dire, dove simili segni rimangono, il colore diventa predominante e tutto parte da un’immagine rudimentale. Non da un progetto già definito, dettagliato, ma da un’immagine rudimentale che io via via poi elaboro mentalmente e cerco di portare sul supporto. È un supporto rigido, di solito non è tela, perché uso una tecnica mista che prevede anche delle carte incollate che preparo prima. Questo per una necessità di materiale, perché uso a volte una mescolanza di pennarelli, smalti, tempere, ma prevale l’acrilico. Quindi il supporto rigido mi permette, soprattutto per la carta, di trasferirla incollandola senza deformare, rovinare. Questo è stato un po’ il percorso che mi ha portato qui.
Adesso, recentissimo, c’è questo ritorno da parte mia a qualche cosa che riproduce un po’ il vero trasfigurato. Vero nel senso che attinge a cose meno mentali e più concrete, più vive che ho visto. Ma sono soprattutto paesaggi, di montagna e paesaggi in generale, che poi porto sul supporto secondo la stessa tecnica sopracitata. Sono più materici rispetto a quelli che facevo prima, molto colorati. Sono due filoni che vanno avanti in parallelo. Non è che ho smesso di fare quello che ho fatto prima. Li porto avanti tutti e due. Mi danno entrambi soddisfazione, per cui continuo a farli, tutto qua.
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Quando un quadro può dirsi concluso
RR: Un quadro è finito per me quando penso di aver raggiunto quella che è l’armonia fra segni, accostamenti, colore e proporzioni. Ecco, quando raggiungo questo tipo di armonia, naturalmente è soggettiva, è la mia, allora a quel punto penso che quell’opera sia finita. Non succede raramente che l’abbandoni anche durante il percorso, perché mi trovo svuotato di argomenti per l’opera. La riprendo magari dopo tempo, facendo sedimentare un po’. Ma non è una cosa che succede sempre. Qualche volta è così, qualche volta invece vado fino alla fine. Il risultato deve contemplare quanto ho detto prima.
Arte, città e società
SC: Secondo te l’arte può cambiare la società?
RR: Credo che sia impossibile dare una definizione di arte. Parto da questa premessa per rispondere alla domanda, perché l’arte è nell’idea, circola nell’aria. L’arte, secondo me, viene dall’unione perfetta tra lo spirituale e il materiale. È l’unione fra queste, anche nelle sue forme più rudimentali. Le opere d’arte migliorano la vita individuale, spirituale dell’autore, dei fruitori. Ma se parliamo di cambiamenti della società tangibili, concreti, penso che ci voglia altro. I sognatori servono ad altri sognatori e sono sempre pochi, comunque.
SC: Ormai vivi in città da tanti anni. Hai ancora un legame con il tuo paese di origine, Ghedi?
RR: Ora il legame non c’è quasi più, però per moltissimi anni è stato molto solido. Io sono venuto in città a otto anni e poi ho vissuto praticamente sempre in città, ad esclusione dell’estate quando, alla fine della scuola, intorno a metà giugno, rientravo in paese. Questo l’ho fatto fino alla maturità, per cui sono stati tanti anni. Anche se posso dire che, dal punto di vista della formazione tutto è avvenuto in città. Però quello che è il legame con i ritmi delle stagioni, con la campagna e i suoi ritmi per me sono stati molto importanti e li ho vissuti personalmente per molti anni. Quindi le vendemmie, il taglio del grano, gli animali nel cortile... sono cose con le quali sono cresciuto e che comunque sono rimaste un’impronta molto importante, penso.
SC: E invece di Brescia c’è una strada, un angolo, un locale a cui sei particolarmente affezionato?
RR: Più che un angolo, un locale e un quartiere. Io, quando sono venuto in città, sono andato ad abitare in piazza della Repubblica, per cui tutta la zona che per loro era assolutamente periferia, direi estrema periferia. Tutta la zona che andava dalla stazione fino alla fine di corso Martiri della Libertà, piazza della Vittoria con via Matteotti, via Bronzetti, tutto quel quartiere è stato il quartiere della mia formazione. Comunque lì ho frequentato persone, circoli culturali... allora c’erano cineforum, c’erano occasioni di crescita per un ragazzo. È stato quello l’ambito.
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